Carolina è stata il gol quando in Italia il calcio femminile era una nicchia ecologica, e lei il capobranco. Ha vinto tanto (12 scudetti e 12 classifiche marcatori, di cui undici consecutive), segnato moltissimo (500 reti), non ha avuto paura di viaggiare né di allenare con alterne fortune, Nazionale donne e uomini di club inclusi (la Viterbese di Gaucci in serie C nel ’99, per pochi indimenticabili mesi entrati nel costume italiano); e ha alzato gli occhi al cielo quando le hanno chiesto se entrava nello spogliatoio dei maschi. «No, per parlare con i miei giocatori mandavo piccioni viaggiatori!» ride oggi nel suo ufficio all’Europarlamento di Bruxelles, garantendo che l’età, oltre alla politica attiva con il Movimento 5 Stelle, l’ha resa più diplomatica rispetto a quando sfondava le difese altrui senza chiedere il permesso.
Carolina Morace, 60 anni, veneziana, ex bomber e avvocato, sposata («Tre volte!» ci tiene a sottolineare, non una di meno) con l’australiana Nicola Jane Williams, è stata la prima quando le ragazze erano ultime. Se le calciatrici italiane il primo luglio 2022 hanno faticosamente ottenuto lo status di professioniste dopo un pressing asfissiante, lo devono (anche) a lei.
Carolina, qual è il calcio d’inizio di questa storia?
«Venezia, un campo di periferia. Sono figlia di un ufficiale di Marina. Ogni giorno, dopo pranzo, gioco a pallone con mio fratello finché mia mamma non apre la finestra e ci richiama dentro a studiare. Ho 5 anni».
Quando comincia a fare sul serio?
«Nel campo accanto arriva la Ca’ Bianca, squadra femminile di serie C. Il pallone su di me ha un potere d’attrazione irresistibile. Mi presento, ho 11 anni. Poco dopo debutto in campionato con un cartellino falso: il limite erano 12 anni».
La sensazione di essere una pioniera, a quei tempi, era palpabile?
«Erano anni in cui uno degli allenatori più intervistati, Eugenio Fascetti, diceva che noi non potevamo giocare a calcio. Perché? Perché siete donne, rispondeva. Punto. La sensazione di aprire una strada c’era eccome. Ma deve capire che noi antenate avevamo una spinta feroce rispetto alle giocatrici attuali, che mi paiono parecchio distratte».
Da cosa?
«È cambiato il mondo, è cambiato tutto: con i social c’è più interesse per i like che per le conquiste».
La legge di Bilancio non ha rifinanziato il fondo per lo sport professionistico al femminile. Così si torna indietro.
«La maggioranza di destra ha calpestato le ragazze. Tre anni fa ad accedere a quel fondo era stata solo la Federcalcio: sarebbe dovuto essere un triennio per porre le basi per la sostenibilità dell’intero movimento, invece sono mancate idee, strategie e azioni».
All’estero i progetti sulle donne ci sono.
«Eccome. Ho allenato in Canada e Inghilterra, dove dal 2009 un partner privato solido investe milioni di sterline sul calcio femminile. Se si lavora bene, gli stadi si riempiono. La Roma in Champions riesce a portare sugli spalti 40 mila persone. Il calcio si fonda su tre pilastri: biglietteria, sponsor e diritti tv. In Italia la serie A cresce e migliora ma non ne parla nessuno. E non ha senso giocare il derby di Milano a San Siro se poi a vedere le ragazze vanno solo 2.500 persone. Perché il calcio donne diventi uno spettacolo, innanzitutto la gente deve sapere che esiste».
Anche il felice Mondiale 2019, quello dei quarti di finale dell’Italia a sorpresa, sembra aver esaurito la sua forza propulsiva. Eppure quell’estate il calcio femminile era diventato un piccolo fenomeno di costume.
«Il professionismo che abbiamo in Italia è solo un nome: è stato l’emendamento di un senatore per tre anni. Ma perché sia tale il professionismo deve autofinanziarsi, e da noi non è così in nessuno sport, non solo nel calcio. Mi sarei aspettata un progetto di professionismo: le ragazze, per bocca di Sara Gama consigliere federale, l’hanno chiesto? Non si può andare avanti a emendamenti».
E adesso che succede?
«Succede che il calcio femminile italiano deve ripartire da se stesso per trovare la forza di rimanere al passo con l’Europa».
Qual era il suo più grande talento, in campo?
«Fare gol. E non essermi mai sentita più forte delle altre: nello sport di squadra non puoi dire di essere la migliore, mai. Anche nella mia nuova vita da europarlamentare mi sono portata dietro il grande insegnamento del pallone: non esistono nemici da annientare, solo avversari che meritano rispetto».
Come l’ha convinta Conte?
«In vita mia ho avuto due tessere politiche: Possibile di Pippo Civati e i 5 Stelle. Sono iscritta al Movimento dal 2022, e non certo perché me l’abbia chiesto Conte. Il presidente non ha dovuto insistere però voglio precisare di aver accettato ben prima di sapere che sarei stata capolista. Nel 2006 ebbi una proposta da Forza Italia, ma fare politica con loro non mi interessava. La prima a intuire che sarei stata tagliata è stata mia moglie Nicola».
Perché il suo coming out, nel 2020 con la pubblicazione dell’autobiografia «Fuori dagli schemi», non ha fatto proseliti nel calcio italiano?
«Voi non sapete cosa abbiamo passato, nella nostra storia. Il percorso parte dalla scoperta di sentirsi diverse in un mondo che non ci accoglie certo con l’apertura di vedute di certi Paesi anglosassoni, vedi l’Australia di mia moglie. C’è ancora tanta sofferenza, e in molte in Italia non l’hanno superata. Questo governo contro le minoranze non è pienamente rappresentativo del popolo italiano: l’astensione al voto si spiega anche così. La cosa che fa più male, qui a Bruxelles, è essere accostati a Ungheria e Bulgaria sul tema dei diritti civili. È molto triste...».
Al collega Inselvini, di Fratelli d’Italia, ha dovuto spiegare che nel 2024 due donne possono avere figli.
«Quando ho visto che c’era un intervento, mi sono messa l’auricolare: pensavo che la domanda arrivasse da uno straniero. Invece era un italiano di trent’anni più giovane di me a chiedermi come si può nascere da due madri...».
Lei ha rivelato la sua omosessualità a 56 anni. Quando e come si capisce che è il momento giusto?
«Non c’è una regola, ciascuna ha il suo percorso. Io ci sono arrivata grazie a Nicola: se sei la prima a considerarti una storia di serie B, il problema sei tu, mi disse. Ma non solo: se non si ha il coraggio di parlarne, come si può pensare di essere accettati?».
È un grande amore, il vostro.
«È una storia d’amore vera e rara, come non a tutti capita di incontrarla nella vita. Io condivido con Nicola la mia esistenza, le mie giornate, le mie emozioni. Tutto».
Com’è il bilancio dei suoi primi sessant’anni, Carolina?
«Ho la sensazione di raccogliere ciò che ho seminato. Ho scelto la politica nell’età giusta: ho vissuto molto, ho provato a fare qualcosa di buono nello sport, ora cerco di creare risultati in un altro ambiente. Le associazioni sportive dilettantistiche vanno aiutate: lo sport costa, non è per tutti. E non è giusto che lo faccia solo chi se lo può permettere. Anche il prezzo eccessivo delle pay per view è un problema: l’ispirazione nasce dall’osservazione, se lo sport non è trasmesso in chiaro avremo sempre meno campioni. Sono preoccupata».
E se tra cent’anni la ricordassero soprattutto come la donna che allenò i calciatori di Gaucci?
«Quel che è fatto, è fatto. Sono stata una pioniera? Okay. Ho detenuto dei record? Va bene. Tutto ha contribuito a fare di me la persona che sono oggi. Empatia e dignità sono due cose che mi interessano molto di più dei traguardi raggiunti. Lo sport ha plasmato il mio carattere e i miei valori. Mi è ben chiaro che non si può sempre vincere. E, se perdo, da domani mi rimbocco le maniche e mi impegno ancora di più».
2025-01-10T18:12:06Z